Fabio e la Brain Computer Interface (BCI) – Una esperienza da condividere

Fabio e la Brain Computer Interface (BCI) - Una esperienza da condividere

La sfida di Fabio per continuare a comunicare quando le funzioni motorie declinano, mentre quelle cognitive rimangono attive e funzionanti.

Mentre nel precedente articolo (cfr.La Brain-Computer Interface una Nuova Speranza di Comunicazione), Camilla, intervistando il Prof. Niels Birbaumer, si era soffermata sulle possibili applicazioni della BCI, come strumento utile per la comunicazione in persone che si trovano in uno stato di “locked-in” (bloccate nel proprio corpo ma con capacità cognitive preservate), in questo articolo Camilla racconta e si focalizza più sulla seconda intervista fatta a Valentina Furin, la sorella di Fabio, sempre accompagnata dal Prof. Niels Birbaumer.

Fabio, prima che gli fosse diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) nel 2009, lavorava come operatore sociosanitario ed era capo scout. Era molto conosciuto e benvoluto nel suo paese d’origine, Piazzola sul Brenta (Padova). Nonostante la progressione della malattia, la famiglia si era sempre dedicata a lui per mantenere, per quanto possibile, le sue capacità comunicative e le occasioni di socializzazione con le altre persone.

Fabio, a causa della sua malattia, progressivamente riscontrava debolezza o addirittura incapacità rispetto ai suoi movimenti muscolari inclusi quelli degli occhi impedendogli di utilizzare il puntatore oculare. Il suo più grande timore, sia per lui che per la famiglia, era perdere qualsiasi contatto con le persone con cui Fabio interloquiva.

Come sottolinea il Prof. Niels Birbaumer, un cervello, se non è stimolato, tende a peggiorare più rapidamente e quindi a “spegnersi” prima del tempo. La comunicazione diventa, quindi, fondamentale per stimolare e, quindi, mantenere attivo il cervello.

La sfida di ogni persona che si trovi nello stato in cui era Fabio è quella di mantenere viva la comunicazione.

Dopo una ricerca fatta dalla famiglia e condivisa con Fabio, si decise di andare di persona a Tubinga, in Germania, per sperimentare su Fabio stesso quanto proposto dal Prof.  Niels Birbaumer.

La prima parte della sperimentazione consisteva nel costruire un “modello statistico” in grado di discriminare i segnali cerebrali associati al “sì” e al “no” attraverso domande chiuse con risposta nota a priori e utilizzando un sistema non invasivo.  Nonostante gli sforzi profusi, la differenziazione tra il segnale cerebrale associato al “sì” e al “no” non era sempre statisticamente accettabile perché la diffusione del segnale attraverso le membrane che proteggono il cervello, le ossa craniche e la cute, introducevano del “rumore” nel segnale.

Qualora i risultati non siano ritenuti adeguati l’unica alternativa che rimane è l’approccio invasivo che richiede l’impianto di elettrodi nel cervello. È una decisione non facile da prendere perché l’intervento implica delle ulteriori complicazioni che riguardano aspetti sia fisici che psicologici per la persona e per la famiglia. Quindi, molte delle famiglie che si trovano nella situazione di dover decidere per una soluzione invasiva, tendono a non proseguire nella sperimentazione. Inoltre, clinicamente non esistono molti casi perché il rischio dell’intervento è elevato, i potenziali benefici non sono certi e qualora lo fossero sono di breve durata poiché la persona si trova allo stadio finale della sua vita.

La famiglia Furin, dopo un’attenta valutazione dei pro e dei contro dell’opzione invasiva, decise che la priorità era di non sottoporre a ulteriori stress Fabio e di mantenere, usufruendo del modello predisposto, i contatti tra Fabio, amici e parenti e la possibilità di viaggiare. Purtroppo, Fabio mancò qualche mese dopo questa proposta.

Comunque sia, nel momento in cui Fabio è riuscito a rispondere con un “sì” o con un “no” alle domande chiuse, anche con un livello di accuratezza inferiore alle attese, si è creato immediatamente un “legame di fiducia reciproca” tra lui e i ricercatori spinti da questi piccoli ma importanti successi. Questo, da un lato aveva incentivato i ricercatori a continuare nella ricerca della soluzione di BCI che meglio rispondeva alle esigenze e risposte di Fabio e dall’altro aveva rigenerato la speranza di poter continuare a comunicare con i propri familiari e amici.

La possibilità di rispondere, nei limiti sopra esposti, alle domande chiuse che venivano poste a Fabio, da parte del team di specialisti, dai familiari e dagli amici, aveva acceso in lui la speranza di poter comunicare con gli altri.

Questa esperienza, se pur breve, è stata intensa e costruttiva poiché Fabio era riuscito a interagire, non solo con il team di specialisti, ma anche con i familiari e gli amici.

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